Tra rivoluzione e giustizia
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Io mi ribello, dunque esisto.

Albert Camus

 

La parola rivoluzione nel corso della storia dell’umanità è stata spesso concepita e veicolata in netta antitesi con la giustizia; altre volte invece è stata percepita quasi come un vulnus alla normale e lineare dialettica della vita pubblica, una pericolosa deviazione e messa in discussione dei principi fondanti degli assetti sociali da contenere e reprimere con tutta la forza ed i mezzi statuali a disposizione.

Come ha brillantemente illustrato l’imperatore bizantino Giustiniano, che molto si è prodigato con l’opera di codificazione per garantirne una corretta enucleazione ed applicazione dei principi del diritto a beneficio di tutti i sudditi, “La giustizia è il fermo e assiduo desiderio di rendere a ciascuno il dovuto”.

La giustizia, senza approfondire tutte le raffinate sistematizzazioni e teorizzazioni, molto sinteticamente dovrebbe garantire, da un lato che ciascun consociato possa liberamente realizzare le proprie aspirazioni, dall’altro, sollecitare l’intervento correttivo da parte dello Stato tramite i sui apparati, qualora questa situazione neutra venga turbata o pericolosamente compromessa.

Se andiamo però a leggere con accuratezza la storia, la rivoluzione è stata spesso anche il detonatore di richieste e avanzamenti che hanno riempito il concetto di giustizia di significati e sfumature ulteriori innovandola continuamente.

Grazie alle rivoluzioni, siano esse episodiche, settoriali o di sistema, l’umanità è progredita, grazie ad una continua rivisitazione del contratto sociale stipulato tra Stato e cittadini: lo strumento freddo ed impersonale del contratto è così divenuto sempre più aperto alle istanze emergenti e ricettivo dei bisogni delle classi sociali più emarginate e dimenticate.

Sono state proprio queste lotte, nate da un sogno o da una visione, alimentate poi da tensioni ideali e azioni dirompenti, a permettere anche agli outsiders di ridisegnare il perimetro dei rapporti di forza e di innescare l’ascensore sociale.

Seguendo queste tensioni ideali, miliardi di persone sono uscite dalla povertà, dall’emarginazione, dalla discriminazione, in sintesi ognuno ha potuto così realizzarsi, emanciparsi dai bisogni e dalle paure, insomma essere se stesso.

Purtroppo, nell’ultimo ventennio stiamo assistendo sia allo svuotamento silenzioso del concetto di Giustizia sia al progressivo inaridimento di quello che era il terreno fertile per ogni moto rivoluzionario.

Si registra in pratica la ritirata dalle pubbliche discussioni di idee, movimenti e spinte tese a provocare un concreto cambiamento dello status quo, moti sotterranei che vengono relegati e circoscritti in ambienti elitari, con conseguente impossibilità in primis, di coagulare consenso e consolidare massa critica, in secundis, di orientare o influenzare il policy making process.

Questa situazione di apatia e distacco dalle sorti della collettività, in assenza di correttivi rischia di schiacciare il singolo negli ingranaggi del sistema, con uno sgretolamento del concetto di equità e l’accentuarsi della situazione di irrilevanza.

Combattere l’indifferenza e l’apatia sarà il campo di battaglia dei nuovi rivoluzionari che dovranno fornire una visione capace di risvegliare il senso di appartenenza ad un destino comune che solo la pandemia da Covid-19 ha in parte riscoperto.

Come ha sottolineato il filosofo israeliano Harari, l’irrilevanza contribuisce rendere l’uomo sostituibile, posto che “È molto più difficile combattere l’irrilevanza, piuttosto che lo sfruttamento. Quando sei sfruttato, almeno c’è chi ha bisogno di te. Ma quando sei irrilevante, perché c’è una macchina che fa tutto meglio di te, allora a stento puoi ribellarti. Perché non hai potere”.

Concludendo, tornare ad essere rivoluzionari in questi tempi moderni sarà un atto di autentico amore verso il prossimo e l’umanità, una genuina riscoperta della comunità: solo così potremmo rafforzare la giustizia e grazie ad essa contrastare la perniciosa ed invisibile deriva della marginalità che rischia di annullarci.

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