Ogni cosa che so della vita me l’ha insegnata la montagna. Non da maestra, non dietro una cattedra con gli occhiali a mezzo naso. Me l’ha insegnata mostrandosi, anche quando tenevo gli occhi chiusi. Mostrandosi, anche quando ad occhi aperti non vedevo. La montagna è per me lo sputo di Gesù che dona la vista; insegnamenti lontani da mura, banchi e registri.
Di quelli nell’ombra del dopo pranzo d’estate, quando il nonno si sedeva sulla sua sdraio di legno e tela e finalmente sospirava. Guardava lontano, ben oltre il giorno, e sentiva e mi chiamava vicino. Mi cantava una vecchia canzone alpina, cambiando le parole per me; mi rimproverava per il mio essere disattenta, per le mie grida, per quel bisticciare stupido tra cugini.
Il nonno è la mia montagna preferita. Profuma di camicia a scacchi e rughe, di legno che costruisce e protegge, di piume e medaglie senza età a coprire quei capelli d’argento dal sole d’agosto. Quel guardare oltre, quello staccare tutto per sorridere dei pini mossi dal vento e godersi l’odore di fieno e altura che pervade il corpo e gli ricorda di essere vivo, nonostante tutto, rimane per me inarrivabile modello di esistenza.
Dolce non è una parola che appartiene al nonno. Dolce non è una parola che appartiene alla montagna: dev’essere stata un po’ ruvida la vita dei maestri senza occhiali a mezzo naso. Il loro è un andare avanti, un farsi spazio tra i solchi e gli interstizi che una vita povera e semplice concede a chi ne sa godere, a chi li sa trovare.
C’è un fastidioso abuso della metafora dello scalatore, dell’alpinista, del montanaro che punta alla vetta. Eppure è evidente che quella metafora non può appartenere ad altri se non a coloro che profumano di camicia a scacchi e rughe.
Ci sono molte cose essenziali per prepararsi alla scalata: la luce del giorno che si spande, l’aria aspra e pulita che attira alla roccia, il silenzio, quel rumore di sferricchiare e corda che sfrega. Verbi d’attesa ben lontani dallo scalatore ordinato e composto della domenica.
Approcciarsi alla scalata significa uscire da sé stessi e mettersi nelle mani dei maestri senza cattedre. Imparare e ricordare mentre la roccia sorregge e sfida. Imparare e ricordare perché solo nel fare si manifesta la potenza del nostro essere. La potenza del nostro essere. A chi profuma di camicia a scacchi e rughe non interessano appoggi duraturi, comode prese raggiungibili senza sforzo. L’appoggio diventa sicuro fiutando il buono e proteggendolo.
Gli scalatori, quelli che dico io, sanno fidarsi dell’istinto delle dita che prima o poi troveranno un appiglio. È per appigli che si crea la via, per quella tenacia che fa trattenere il fiato. Trazione o spinta di ben più ampio respiro: inno alla vita che deve passare per il dolore.
Quant’è il tempo di un appiglio? Quanto posso contarci? Mi posso fidare?
Non lo so, ma lo sentirò.
Stacca, se devi. Aggrappa forte, se puoi.
Scalare non è salire, trovare non è arrivare: non c’è vittoria nella comodità. Quando non vediamo, pur avendo tutto chiaro davanti a noi avanziamo di pancia: tastoni e tentativi di possibilità che non sappiamo concederci. È nel bisogno che si protende disperata ma dignitosa la mano.
A sentire, a sperare, mai a colpo sicuro, ma sempre certa di trovare.
Non è nel grande che troviamo conforto ma in quelle dita di vento che attendono fiduciose.
Non è nella dolcezza che troviamo sollievo, ma nella ruvidità che insegna muta.
Non si diventa scalatori a parole: sono mani, graffi e paure a creare le rughe che diventano saggezza e diritto.
Dolce non è una parola che appartiene al nonno. Dolce non è una parola che appartiene alla montagna. Dolce non sa di niente: è sollievo la parola che appartiene al nonno e alla montagna. Il sollievo si prepara come una scalata, non arriva dal nulla, non è speranza vuota, né preghiera del non credente. È appiglio nell’incertezza che, se buono, diventa tocco e presa e radice. È appiglio che diventa luce del giorno e sangue che secca. È appiglio che non si chiede, è appiglio che non si lascia: appiglio che sputa in faccia, ma insegna e ricorda. Appiglio aspro di scalate fuori stagione che sfidano il giusto e il prevedibile. Appiglio che imbianca i capelli e solca le rughe.
Appiglio aspro come il nonno, aspro come la montagna.
Dolce non sa di niente: è l’asperità che veste di scacchi e rughe, che offre presa salda e promessa di futuro.
È l’asperità che offre salvezza, sempre.
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