Ci sono luoghi che si stipano naturalmente all’interno dei nostri cuori. Trovano una loro collocazione naturale ed organica che a volte anche il tempo fa fatica a dislocare. Si incastrano sofficemente in quelle crepe che attraversano trasversalmente la dimensione del ricordo e quella dell’affettività. Il loro sistema organizzativo si compone almeno in una coppia.
Io personalmente ne ho tre, una di queste tre si determina all’interno del Appennino toscano. Per me è un luogo che ha un molteplice valore, spirituale, naturale, culturale. Non assiduamente quanto vorrei tento di raggiungerlo appena mi è possibile. Sicuramente e senza alcuna ombra di dubbio, il luogo in cui la combinazione di tempo trascorso e qualità del tempo trascorso raggiunge il livello più alto.
Appartiene a questo luogo un contadino di nome Mario, uomo di ottantasette anni. Contadino toscano, non molto silenzioso ma come letteratura vuole dal cervello molto fino. Al posto delle dita ha delle salsicce dure e gonfie che ormai non è più capace di piegare a causa del lavoro nei campi. Ma alla poca flessibilità delle mani si contrappone una elasticità totale della mente.
A discapito del tempo che riesco a passare in questo luogo, grazie la sua spiccata elasticità mentale, posso dire che Mario è una persona che mi conosce abbastanza bene. Di certo non mi sognerei mai di raccontargli qualche cosa che non sia aderente alla realtà. Non oso nemmeno immaginare cosa la sua creatività toscana potrebbe riversarmi addosso.
Quando la mia vita mi concede la possibilità di ritirarmi in questo luogo per qualche giorno di seguito, vado ad alloggiare in un rifugio confinante con un terreno del quale Mario si prende cura come un figlio.
Un giorno Mario arriva con un furgoncino che parcheggia al margine di questo terreno. Scende si guarda un po’ intorno e poi da lontano, semi urlando, mi chiama: “Dottò… viemmi a dà na mano.”
Io metto via le mie cose, lo raggiungo, perché al di la del rispetto dell’eta Mario è una persona con la quale mi piace passare del tempo. Lui apre questo furgoncino e dentro vedo un piccolo albero di ulivo.
Mario stava piantando un albero di ulivo. Mario ad ottantasette anni stava piantando un albero di olivo.
Avete idea di quanto tempo si prende un ulivo per crescere? Almeno venti-venticinque anni. Mario ad ottantasette anni stava piantando un albero di ulivo che non avrebbe mai visto. Perché?
Uno degli insegnamenti più importanti, e anche quello che cito più spesso, che ho ereditato da Vittoria Ottolenghi è la frase “ricordati che la gente verrà a vedere chi sei non che fai”. L’essere è quello che conta, l’essere è quello che fa differenza, l’essere è quello sul quale verrà misurata la nostra vita, non il fare. Alla fine di questa transizione su questa terra non verremo mai misurati su quello che abbiamo fatto, verremo sempre ricordati per ciò che saremo stati.
L’uomo è, non fa. E sebbene l’essere di Mario si stava traducendo in un’azione, è nella qualità dell’essere che si trova il motivo per piantare un albero di ulivo che non vedremo crescere mai. Lì dove è il fare a guidare prima o poi inizieremo a mediare sulle nostre azioni, sul nostro impegno, sulla nostra dedizione. Lì dove è il fare a guidare prima o poi arriverà una economia a gestire l’essere.
Quando è l’essere a guidare le nostre azioni queste hanno il germoglio della provvidenza all’interno. Mario ad ottantasette anni pianta un albero di ulivo perché sente che ci sarà bisogno di quell’albero di ulivo. Mario ad ottantasette anni pianta un albero di ulivo che non vedrà crescere mai perché la risposta a questa chiamata dà senso a tutta la sua esistenza. Mario ad ottantasette anni pianta un albero di ulivo che non vedrà crescere mai perché sente che solo prendendosi cura della terra la terra si prenderà cura della vita.
Il futuro non arriva da se, il tempo arriva da se. Il futuro va costruito, costantemente con mani che piantano alberi di ulivo ad ottantasette anni. Con mani capaci di toccare la terra con la stessa sacralità con cui un sacerdote tocca un’ostia.
E come Mario rivanga la terra affinché prenda aria e luce così da conservare una fertilità di cui lui beneficerà ancora per poco, anche noi dobbiamo essere capaci di rivangare le nostre vite affinché anch’esse possano prendere aria e luce.
L’opportunità che ancora rimane in questo tempo è quella di riuscire a guardare negli occhi il dolore che stiamo vivendo e rinascere in esso come in un tempo di gravidanza, non di agonia.